martedì 22 gennaio 2019

I FIORI DI AUSCHWITZ


Questo racconto è tratto dal libro dell’omonimo concorso: “Scrivi con lo scrittore” indetto dalla casa editrice Giraldi Editore di Bologna  per il quale, alcuni scrittori fornirono degli incipit e di cui
scelsi questo riportato all’inizio del racconto in corsivo. Incipit di Stefano Chiesa Mazzanti.

Dedicato ai martiri della Shoah.
Affinché non si dimentichino le persone che sono morte innocenti per  un reato inesistente.


                                       I fiori di Auschwitz

Incipit:
Quando riaprii gli occhi, mi ritrovai dinanzi ad uno spettacolo unico. Un immenso prato verde si disperdeva all'orizzonte, strani esseri, mai visti in vita mia, mi fissavano incuriositi.

Ero là, i miei occhi avevano dimenticato com'era fatta una distesa verde come quella che riempiva il mio sguardo e poi c’erano loro. Stavano in piedi, mi guardavano come se io fossi stata una cavia da laboratorio. Avevano tutte le sembianze dell’essere umano, ma qualcosa che  non riuscivo a decifrare nel loro sguardo, m'immergeva nel dubbio totale.
Ero in uno stato d’apparente quiete, ma la confusione mi fuorviava, non riuscivo a ricordare perché ero lì, stesa sull'erba.
C’erano dei fiori gialli che sembravano tanti piccoli soli caduti in quel prato, avevo l’impressione di sognare, quei fiori mi erano sconosciuti, ma così belli!
Pensai che mi trovassi in paradiso o in un altro luogo che non riuscivo ad immaginare. La mia vista era offuscata, mi sentivo come stordita.
Nel muovermi mi accorsi che un dolore fortissimo s’impadronì di me, facendomi riprendere coscienza. Quegli esseri strani che due minuti prima non avevo riconosciuto erano dei soldati tedeschi, le SS.
Dei flash di memoria mi accompagnavano mentre loro continuavano a guardarmi e a ridere lasciandosi sfuggire commenti odiosi, come: “ Volevi fuggire piccolo escremento della razza umana, ma devi soffrire prima di morire; con la tua pelle faremo fogli di pergamena, con le tue ossa bottoni”.  Il loro sorriso era pieno di cattiveria mista a sadismo.
E mentre continuavano a girarmi intorno, presi coscienza di tutto, di dove mi trovavo, di come tutto fosse iniziato.
Ricordai improvvisamente le mie origini rom, l’arresto di mio padre in Austria avvenuto verso la fine del 1940…

Bussarono alla porta della nostra umile dimora, stavo dormendo, le grida risuonarono nel silenzio della notte come la paura che invase il mio cuore che batteva forte, lo pressavo con la mano destra perché facesse silenzio, quasi a soffocarlo. Udii colpire col calcio del mitra, mio padre, era la Gestapo. Si dibatteva contro di loro, ma inutilmente. Fu preso di forza, stordito dai calci, fu scaraventato in una delle loro camionette grigioverde, in cui anche altri rom furono deportati per una destinazione incognita.
Avevo tredici anni, quando rimasi sola con mia madre e i miei sei fratelli e sorelle, ma fu per breve tempo. Dopo dieci giorni vennero a prendere anche noi, gli stessi uomini, tutti uguali se non per il loro aspetto fisico, quanto per il loro sguardo gelido e senza espressione e il tono della loro voce che li accomunava nell’impartire ordini perentori, che ancora ora risuonano nella mia mente: “SCHNELL, eins, zwei, drei, vier, fünf” …e così ad uno ad uno ci contavano mentre salivamo di forza sul camion; buttati come sacchi di spazzatura, gli uni sugli altri, senza distinzione, donne, bambini, vecchi, tutti sul camion, si soffocava. Ci trattavano come bestie da macello, non sapevamo dove eravamo diretti e neppure il perché di un tale viaggio. Dopo una notte passata nella paura, ci fecero salire su un treno merci e, rinchiusi, stipati, senza aria, giungemmo stremati dopo due giorni in un posto che non si può e non si deve dimenticare: “Auschwitz”.

Al di là dalla barriera di filo spinato ad alta tensione, uomini prigionieri sorvegliati a vista ci guardavano con occhi disperati, frustati, obbligati a correre scalzi su vetri sbriciolati. Dopo due giorni non tardai a conoscere la loro stessa sorte. I soldati ci spinsero giù dal treno su cui ci avevano obbligato a salire, i vecchi e i bambini dovevano saltare anche se no ne avevano le forze. Cadendo, le loro ginocchia si fracassavano sulle pietre vive e appuntite della strada ferrata, causandogli un atroce supplizio.
Un’infinità di strutture tutte uguali s’innalzavano alle spalle di quegli uomini che stavano dietro il filo spinato; le guardie con i mitra pronti a colpire vigilavano dalle torrette. I miei occhi faticavano a sostenere gli sguardi di quei prigionieri, quando una voce a me cara s’alzò dalla massa umana… era mio padre, gridò il nome di mia madre: “Zara!”.
Mi voltai e cercai di scorgere il suo viso, ma non ebbi il tempo di gridare il suo nome, che insieme a mia madre e mia sorella, lo vedemmo cadere sotto il fuoco dei mitra. Abbracciai mia madre, mentre un soldato ci divise strattonandoci e spingendoci dentro il capannone insieme con gli altri.
Giunte al blocco 26, una SS intimò a tutti di spogliarsi, vidi mia madre arrossire, mentre le lacrime uscivano da sole dagli occhi scuri e profondi, la guardai e mi vergognai.
Ci avevano divise e davanti a noi tante persone avanzavano per due, chissà cosa dovevamo sopportare? Poi me ne resi conto. Alle donne come ai bambini e agli anziani, gli rasavano la testa come pecore indifese.
Sentii gridare l’odioso : “SCHNELL”! Era il mio turno, non volevo che mi tagliassero i capelli, ma subito sentii scivolare il rasoio sul cranio, l’abilità con la quale privavano le teste delle chiome, mi fece capire che avevano molta esperienza.
In pochi minuti ero nuda dalla testa ai piedi. Toccai con la mano la sommità del cranio, avevo perso con i miei capelli non solo la libertà ma la dignità umana. Guardai da lontano mia madre e il dolore misto a vergogna era l’unico vestito di cui si copriva e mi coprivo.
Fui spinta ad entrare insieme con gli altri nei così detti bagni, tra botte e grida di chi si ribellava, quando l’acqua troppo calda o troppo fredda cadeva addosso.
Fui spinta ancora una volta con il calcio del mitra, che sentii entrare nella schiena affinché avanzassi.
Uscii all’aperto in pieno dicembre, mi misi in fila dietro gli altri durante l'attesa per avere un’uniforme a righe, che ricevetti appena giunto il mio turno. Vi entravo due volte, sporca e lacera, l’indossai in silenzio guadando mia sorella Sonia, di appena dieci anni, che a sua volta mi guardò e si mise a piangere. Aveva freddo, era ancora nuda nell'attesa di un’uniforme, ma dall’altro lato mia madre ci fece cenno con  gli occhi affinché non la guardassimo e ci fece capire di restare tranquille. Lessi nel suo sguardo la preoccupazione, forse era meglio ignorarci per non farci dividere del tutto.
Feci cenno a mia sorella di non piangere, mi sentivo invecchiata in poche ore di almeno dieci anni. La paura mi attanagliava lo stomaco e il cuore batteva fortissimo ogni volta che le SS impartivano un ordine.
Mi resi subito conto d’essere giunta all’inferno, quando vidi mio padre morire senza una vera ragione. L’essere stata divisa da mia madre, aver subito l’umiliazione di spogliarmi davanti a tutti ferendo la mia dignità, continuando a dover fare una lunga ed estenuante fila al freddo e con lo stomaco che gridava fame, e tutto ciò per tatuarci un numero sul braccio.
Nell’attesa del mio turno capii quanto contava poco appartenere alla razza umana, per quegli uomini che ci trattavano come bestie; fui marchiata con un numero che definiva la mia identità al posto del mio nome. Da quel momento ero soltanto un numero fra tanti altri.
Ci portarono in un campo, lo stesso in cui era stato ucciso mio padre.

Trascorsero circa otto settimane dal nostro arrivo, era il posto in cui tutti dovevano dimostrare la loro tenacia, era il campo designato per la quarantena, un vero tormento senza sosta. Era un campo in cui fui sottoposta a sevizie corporali e mentali. Ci passavano pochissimo cibo e dovevamo sostenere tanti sforzi fisici sotto le incessanti botte delle SS che avevano il compito di ridurre l’essere umano in larva, sia dal punto di vista fisico che mentale, con il solo scopo di vedere se eravamo idonei per sostenere il lavoro che ci spettava.
Il loro motto forgiato sul cancello dell’entrata di Auschwitz, per l’appunto si riferiva al lavoro: “Arbeit macht frei” “Il lavoro rende liberi”, una beffa ai danni dell’umanità, come per dire lavorando sarete liberati da questo inferno con la morte.

Uscii dalla quarantena stremata, la sola cosa piacevole fu il viso di mia madre che intravidi con quello di mia sorella. Fu un grande sollievo vedere che anche loro erano sopravvissute alla quarantena.
Iniziai a lavorare da subito. Il lavoro consisteva nel dovere spogliare i morti dei loro beni.
Entrando in quel luogo mi si raggelò il sangue nelle vene. Le mura erano altissime tre, forse quattro metri, per la metà l’enorme capannone era pieno di corpi ammucchiati che formavano cumuli alti due metri; cadaveri mutilati, già nudi, ad alcuni mancavano i capezzoli dei seni, altri corpi squarciati, privi d'organi, privi dei loro denti, mutilazioni fatte su corpi scheletrici, l’orrore era nei miei occhi.
Una donna che poteva essere mia madre, per la sua età e per lo stesso aspetto forte, mi prese la mano e mi fece girare la testa per non guardare tanta disumana crudeltà.
Quelle montagne di corpi inermi e mutilati devastarono la mia mente, c’era da impazzire e
terrorizzata, mi domandavo perché? Che cosa avevamo fatto per meritare un tale castigo?
Presto mi resi conto che non era altro che l’inizio della nostra fine.


 Seminuda ero distesa su quel prato e ormai mi era chiara la ragione del dolore che sentivo. Era un dolore dovuto alle percosse ricevute dopo la mia tentata fuga dal campo di Auschwitz, dove avevo approfittato della distrazione di una guardia e mi ero infilata in una cassa di legno piena di vestiti che dovevano essere portati via dai soldati. La cassa fu caricata sul camion e quando il cancello si aprì sentii una stretta al cuore ed una gioia che mi pervase.
Ero riuscita ad uscire dal campo, dovevo tirarmi fuori da quella cassa, ma non sapevo come fare poiché c’erano i soldati. Colsi un momento propizio per uscire dalla cassa, quando il camion si fermò bruscamente; profittai del fatto che i soldati erano scesi dal camion. La ruota anteriore destra si era forata, saltai dal camion rotolando giù per la scarpata, ma un soldato mi vide e subito chiamò gli altri…
Erano gli stessi che mi guardavano in quel momento, dopo avermi massacrata di botte ridevano malignamente. Avrebbero fatto meglio se mi avessero uccisa.
Erano troppe le cose di cui mi ricordavo e che mi facevano male più delle ferite: mia madre che rubava le cinture, qualche scarpa di cuoio ai corpi seviziati da esperimenti disumani di dottori sadici.
Il cuoio racimolato da mia madre che masticava per ammorbidirlo, lo riduceva poi in briciole e di nascosto ci diceva di mangiarlo se non volevamo morire di fame, così pure, trafugava pezzetti di stoffa in cotone riducendoli in fili che spezzettava, era il nostro pasto, l’inghiottivamo sotto il suo sguardo vigile ed amorevole se pur lontano”.
"Quanti orrori l’essere umano ha commesso, che di umano aveva solo le parvenze", come quelle bestie che stavano a me intorno.
Uno di loro mi disse d’alzarmi. Sentivo che non ce la facevo, ma ci provai, il dolore era insopportabile e crollai di nuovo sull’erba quei fiori mi guardavano, erano l’unica cosa bella che mi era capitata di vedere, da quando ero entrata nel campo…

Un calcio mi giunse forte colpendomi all’anca già dolorante, cercai di rialzarmi riunendo tutte le mie forze ormai inesistenti. Pensai a mio padre, mia madre, al loro coraggio, e con un urlo atroce mi tirai su barcollando, uno di loro gridò ancora una volta: “SCHNELL!” Sempre lo stesso ordine. Con piccoli passi traboccanti da una zolla all’altra fui spinta sul loro camion e portata a Birkenau. Mi divisero da mia madre e mia sorella; gli altri fratelli, erano stati sin dall’inizio deportati in altri campi di concentramento e di loro non avevamo saputo più nulla. Quando arrivai al campo fui scaraventata giù dal camion con i miei vestiti in brandelli e le ferite ed ecchimosi su tutto il corpo; due prigionieri vennero a raccogliermi, ero a pezzi. Cercarono di disinfettare le mie ferite con la mia stessa urina, passai più giorni abbandonata a me stessa su di uno straccio di coperta, tra la vita e la morte a causa delle infezioni, al freddo delle notti, nutrita da qualche tozzo di pane che Sara, una donna ebrea, divideva con me quel poco che riceveva in cambio del lavoro da lei svolto nel campo di Auschwitz che distava tre chilometri da Birkenau, dove si trovavano mia madre e mia sorella.

Sara, mi raccontò che erano stati buoni con me perché i prigionieri che tentavano l’evasione, erano puniti con la morte, forse era stata la mia età che li aveva frenati, ero giovane e dovevo lavorare. Ogni sera dopo la ronda Sara strisciava a terra per raggiungere il mio giaciglio e mi portava notizie di mia madre e mia sorella. Una mattina doveva andare a lavorare, ma due guardie vennero e la prelevarono, da allora non ebbi più sue notizie, seppi solo che dopo pochi giorni dovetti sostituirla.
Il dispiacere di non vederla più però fu rimpiazzato dal piacere di rivedere mia madre e mia sorella.
Il lavoro che mi fu affidato fu quello di curare le aiuole che il Führer aveva ordinato, ai suoi uomini, d’intrattenere. Egli era amante della natura, incredibile, gli piaceva ammirare i fiori e le piante nei loro colori e forme. Ogni giorno annaffiavo e curavo quelle aiuole, vicino ai campi di sterminio, da un lato c’erano i fiori e dall’altro la porta che conduceva alle docce della morte. Tutto doveva sembrare bello…le guardie ogni mattina venivano a vedere se tutto fosse in ordine, se avevo zappato e ripulito il terreno dalle cattive erbe, ma su tutto se avevo annaffiato bene le piante tenere. Una giovane betulla sovrastava con i suoi rami il giardino era quella preferita dal Führer .
Da parte dei soldati, c’era come una morbosa attenzione per quelle piante, di cui non conoscevo il nome, c’erano anche i fiori che mi avevano vista giacere nel campo, quando ero stata catturata dopo la fuga.
 Sì, proprio loro, i piccoli soli gialli che avevo così battezzato perché avevano la corolla come le margherite e che somigliavano tanto al sole in un cielo verde e che mi avevano regalato un senso di libertà anche se solo per un breve istante.
Che strano! Pensai che comunque, gli fosse stato riservato quello spazio esiguo e come dei prigionieri privilegiati del Führer, anch’essi, fossero stati privati della loro libertà.
Mi guardavano, ma non più con la stessa bellezza di quando ancora liberi stavano come me nel campo immenso color speranza, non avevano lo stesso colore oro di cui si fregiavano e fieri mostravano i loro petali come piccoli raggi di sole, forse era solo una mia impressione, ma percepivo la loro tristezza che era anche la mia.
Stavo ripulendo il terreno dalle erbacce e la mia mente dai pensieri cattivi, quando udii gridare mia madre, due soldati l’avevano presa per deportarla in un altro campo di concentramento, “Treblinka” di cui nessuno conosceva la vera funzione di quel campo. Lasciai gli attrezzi e corsi lei incontro, mi aggrappai alla sua gonna lacera, i due soldati mi presero e mi staccarono da lei con violenza facendomi cadere sulla ghiaia ai bordi del reticolato di filo spinato ad alta tensione, restai lì per terra, tramortita dal colpo ricevuto e vidi allontanarsi per sempre mia madre insieme alle sue grida. Alzai pian piano lo sguardo e dalle aiuole a me vicino facevano capolino i fiori, forse era destino, ma stavano guardandomi ancora una volta, come per dirmi: “Coraggio, rialzati e vieni a curarci, tu sola puoi capirci”. Mi alzai piangendo e ripresi il lavoro poiché lo sguardo della sentinella già pesava su di me ed era pronto per lanciarmi il suo: “SCHNELL!” Le lacrime cadevano come fiumi, bagnai i fiori del mio pianto, dovevo stare attenta che non morissero ne valeva della mia vita, se vita poteva chiamarsi.
Il sole era da poco tramontato e la sera triste avanzava, e le mie mani sudice di terra aggiustavano le ultime zolle intorno ai fiori da poco nati, purtroppo avevo le mani stanche e per sbaglio spezzai il gambo di uno di quei fiori e per non farlo vedere lo raccolsi e lo nascosi nella tasca del grembiule. Il gesto fu notato da una guardia che mi ordinò di mostrare cosa avevo messo in tasca. Purtroppo dovetti estrarre il fiore dalla tasca che, poverino, s’era già afflosciato. Per il mio gesto, dovetti pagare.
Quella notte la passai in un buco scavato nella terra sovrastato da una grata di ferro pesante. Portai con me il fiore che avevo spezzato e ricordo che la sola cosa che feci, fu quella di stringerlo sul mio cuore, come una coperta per tenermi caldo in quella notte fredda e scura. Il mio piccolo sole, un fiore di cui ignoravo il nome, ma che occupò un posto nella mia vita regalandomi un po’ di colore in un mondo fatto d’oscurità e violenza. Un mondo in cui gli esseri umani erano solo numeri ed i fiori creature da rispettare.  

Autrice: Anna Giordano 
edito Giraldi Editore  luglio 2009

venerdì 18 gennaio 2019

Chissà perché il cuore non si ammala di cancro?

Chissà perché nel cuore non si genera il cancro. 
È l'unico organo del quale non ho mai sentito 
che fosse stato affetto da tumore;
forse non è così, può darsi, seppure ho cercato 
e casi non ne ho trovati. 
Vorrei capirne le ragioni poiché, pur essendo un organo vitale, 
come il cervello, il pancreas, il fegato, i polmoni, ecc... 
non ho mai sentito che qualcuno si fosse ammalato di cancro al cuore. 
È vero, si ammala di altre malattie, 
ma perché non di quella più temuta e distruttiva? 
Sarà forse perché è una pompa ed è sempre in movimento? 
Ma anche il cervello e tutti gli altri organi lo sono! 
Allora perché il cuore non si ammala di cancro? 
Forse sarà perché il suo tessuto è muscoloso? 
Mah! 
Eppure deve esserci un perché.
Forse perché è il solo a raccogliere emozioni,
 è il solo che si commuove quando gli altri si ammalano di cancro 
e se pure lui si ammalasse dello stesso male, 
non potrebbe aiutare chi si ammala e avere la forza di poter guarire 
ed esternare l'amore per la vita. 
Forse ho trovato! L'amore si sa non muore mai e il cuore è il solo 
che ospita l'amore, e può sconfiggere il male ed impedire al cancro 
di entrare nel suo regno? 
Chissà se è questa la ragione, ma voglio accontentarmi di essa, 
perché in fondo, può far nascere,  se non altro, il dubbio a chi nell'amore non crede.

Anna Giordano