martedì 9 giugno 2015

I TEMPI DEL TEMPO ( poesia)

Vivo il presente che sarà il passato,
vivrò il futuro che sarà il presente,
il tempo è solo presente è l’attimo che vivo!

L’inganno è nella mente:
pensando che il passato preceda il presente,
se pure, paradossalmente,
indica il tempo che è stato già vissuto,
solo il futuro è primo nel presente,
nonché nel passato.

Presente: funambolo che scivola sul filo immaginario dei tempi del tempo
sospeso tra il futuro ed il passato.

Un labirinto strano, il tempo della vita,
che ripercorro in  mente con mille entrate nel passato
ed una sola uscita nel presente.

E qui, vedete, in questo preciso istante,
nel leggere, leggete.

Vivete il presente, che è già passato,
ed il futuro è già presente,  
in un tutt'uno si fondono,
nello stesso punto e nello stesso istante
e prendono il nome di tre tempi distinti.

Sono certa e ribadisco,
che solo un tempo esiste ed è il presente!
Passato, futuro, non sono altro che i tempi del suo tempo.

Povera la mia mente, 
che confusione…
quando si spegnerà
in quel preciso istante del presente…
pensate che tutto si fermerà?

No poiché io farò parte del passato,
sì, ma anche del futuro,
di chi ricorderà nel suo presente il mio passato…

Penso, che dopo tutto il tempo impiegato,
a raccontarvi i miei pensieri e dubbi,
mi fermo qui e aggiungo solo:
che i tempi del tempo sono imperfetti,
e se continuassi a ragionarci, non finirei più,
e il tempo poi : dal futuro, presente, passato,
ahimè, diverrebbe infinito!  

Anna Giordano  24/04/2007                    


domenica 7 giugno 2015

Vita in paese

Il bar del Nobile era l’unico bar del paese. Il suo proprietario, che vestiva con raffinata eleganza, aveva un aspetto distinto e il suo modo di parlare lo caratterizzava perché la sua erre sembrava che rotolasse sul sapone. In armonia con gli amici lo aveva battezzato proprio così: il bar del Nobile. Era il luogo di ritrovo di tutti, amici e non. Era situato in una piazzetta dove una fontana a zampillo sputava acqua a singhiozzi dal muso di un delfino arrugginito. Sulla destra, un giardinetto accoglieva i bambini per giocare e di fronte al bar la strada erta portava alla collina dei fichi, che era un piccolo quartiere. Nel paesino era d’usanza ribattezzare gli amici con un soprannome, per identificarli subito.
Pasqualino detto Occhio Fino a causa della sua pronunciata miopia, Peppe detto il Professore per i suoi atteggiamenti da intellettuale, e Antonio che tutti chiamavano il Cancelliere a causa del suo lavoro, che consisteva nell'aprire e chiudere il cancello del cimitero, stavano seduti davanti al bar. I tre solevano riunirsi lì dopo il lavoro, ad orario fisso, e parlavano del più e del meno.
Occhio Fino diceva dell’arrivo nella giornata di una nuova famiglia in paese, madre padre e figlio, questo ultimo, probabilmente loro coetaneo, sui trentacinque anni all’incirca, in base a quanto gli era stato riferito.
Il professore domandò subito che professione esercitasse il nuovo arrivato, egli era curioso
sempre di sapere, che tipo di lavoro svolgessero le persone, perché così, le catalogava nel suo registro mentale, per poi sfoggiare loro tutto il suo sapere e passare ai loro occhi per un erudito.
Occhio Fino non poté fornirgli altre informazioni, non conoscendo ancora la persona.
I tre amici stavano sorseggiando, come di consueto, il loro aperitivo, quando il Cancelliere seduto accanto ad Occhio Fino esclamò con stupore: « Occhio Fino, ma sono i miei occhi oppure quel camion che sta giungendo, non ha l’autista ?»  
Occhio Fino rispose: « Ma proprio a me lo chiedi, io vedo il camion, mi sembra che l’autista ci sia, o no ?»
Il Professore che volgeva le spalle alla strada erta, domandò di quale camion stessero  parlando, il Cancelliere rispose: « Quello che, se non ci togliamo di qui ci viene addosso. Non c’è l’autista !»
Il Professore scattò dalla sua sedia in piedi, guardò il camion che avanzava in loro direzione e gridò:
«Nessuno a bordo! »
Tutti si buttarono a terra, sul lato del giardinetto, quando, a loro sorpresa il camion si fermò.
Lentamente cigolando, si aprì la portiera e ne uscì fuori un ragazzo, all'incirca delle loro età, alto non più di m.1.40, baffi  curati, indossava una tuta verde, che era stata accorciata conservando tutta l’ampiezza, tanto da fare uscire appena, le scarpe nere a punta tonda sulle quali poggiava sopraelevato da due tacchi di circa 5 centimetri. Non era un nano, sembrava più un bambino che non un adulto.
Salutò tutti con un: « Salve !»
I tre amici che nel frattempo si erano alzati, cercavano di darsi un contegno, spazzolandosi i pantaloni.
Imbarazzato, il Professore avanzò verso di lui tendendogli la mano e disse: «Mi presento, Peppe, per gli amici: il Professore. Stavo insegnando loro una tattica di rugby, e tu da dove vieni ?»
«Io sono nuovo, sono appena giunto, abito sulla collina dei fichi», i tre si guardarono, «mi chiamo Mario e faccio il camionista, non ho amici, sono sempre all'estero, lì ho qualche amico, voi siete i primi ragazzi che incontro qui». I tre lo invitarono a bere con loro, Mario li ringraziò e salutandoli, entrò nel camion e ripartì.
Appena si allontanò i tre, insieme al Nobile, lo battezzarono “Il Marziano”.

Anna Giordano




martedì 2 giugno 2015

Il prezzo da pagare


In un grande prato verde, un grillo si confondeva col suo colore. Le sue zampette uncinate, s’aggrappavano agli esili fili d’erba che fungevano da liane. Poco distante c’era una margherita che aveva appena aperto la sua corolla bianca ai raggi del sole che la riscaldava. Il grillo stava per spiccare un salto per raggiungerla, quando frenò il suo slancio poiché fu preceduto da una stupenda farfalla che gli prese il posto, coprendo con le sue ali fragili e variopinte, tutto il fiore.
Il grillo soggiogato dalla sua eleganza e bellezza, rimase ad ammirare la livrea della farfalla che, nel suo insieme, sembrava un bouquet multicolore che irrompeva nella monocromia del verde prato.
Le sue ali come leggeri ventagli, s’agitavano permettendole di fare di tanto in tanto surplace, le sue zampine fragili sottolineavano ancor di più l’eleganza della sua bellezza. Dopo un breve riposo, sul cuore giallo della margherita, la farfalla spiegò le sue belle ali e si levò in volo. Il grillo che era rimasto nascosto ad ammirarla, si specchiò in una goccia di rugiada e, amaramente, si rese conto del suo aspetto che differiva molto da quello della bellissima farfalla. Poi disse fra sé e sé:
“ La natura però è ingiusta, io così brutto, con un naso che prende tutta la faccia, e due occhi sbozzolati dalle orbite e ricoperti da due piccole persiane, con un corpo grosso e goffo su due zampe lunghe e mingherline come trampoli pieghevoli, e come se non bastasse,  le ali, sì perché ci sono le ali che sono nascoste, talmente sono brutte, sotto due code obsolete di un vecchio frac. Senza dimenticare questo colore è quasi sempre verde o marrone, tanto da farmi confondere con i campi, così nessuno mai si accorgerà che esisto!”
Intanto, la farfalla volava col sole che le illuminava le ali, quando un signore, che camminava sul bordo del campo, munito di un retino, attirò l’attenzione del grillo che smise di borbottare per guardare l’uomo che a lunghi passi, aveva già raggiunto la farfalla. Spensierata la povera sprovveduta, volteggiava nell'aria. Il grillo, rimase nascosto mimetizzandosi fra l’erba e impotente, assistette alla cattura della bella farfalla che, finita prima nel retino e poi nelle mani dell’uomo subì un orribile destino. Il suo gracile corpo fu trafitto da un abominevole spillo e con cura, fu deposto, ancora agonizzante,  in una scatola. Il povero grillo atterrito da tanta crudeltà, suo malgrado, si sentì pervaso da un senso di contentezza per essere stato creato così com’era da madre natura, e pensò che infondo, era meglio non essere troppo belli. Quel che era accaduto alla farfalla gli aveva fatto capire che per tutto c’era un prezzo da pagare, anche quello della notorietà e della bellezza che a volte, si trasforma in oggetto del desiderio e suscita gelosia ed invidia, da parte di chi, come il grillo, non si sentiva di pari bellezza.

08/03/2015 Anna Giordano






giovedì 14 maggio 2015

lunedì 5 gennaio 2015

CORE BATTERISTA

A PINO DANIELE...

‘Stu core batterista maestro e pure artista,
‘sta vota ha fatto ’o fesso lasciannete pe’ feste.
Pe’ te era n’amico,
senz’isso, nun facive nu passo
e nun scrivive nu verso,
senza ca te dicesse ‘e pparole c’avive cantà.

Eppure, st’amico che tu, purtave 'mpietto,
stanotte t’ha llasciato senza te fa fiatà.

Scetanneme stammatina,
 agge saputo ’a nutizia 
è stato 'nu terremoto
e ‘o core ha ditto all’uocchie ‘e chiagnere ‘o dulore,
 ‘o mio e chill’'e Napule ca chesta vota,
 pe’ te, nun s’è vestuta a festa,
 Napule è…
 Ammutulita,
e dint’all’aria sule ‘na voce canta,
 è 'a toje...

venerdì 2 gennaio 2015

La felicità secondo me...

Anna Giordano 28 dicembre 2014.

“Ho scoperto che tutta l’infelicità degli esseri umani deriva da una sola cosa, e cioè da non saper restarsene tranquilli in una stanza.”

Blaise Pascal.


Questa frase di Pascal mi fa riflettere su quanto sia possibile la felicità, come sia semplice toccarla, eppure, si è in tanti a battersi per assaporarla, ma solo in pochi a riuscirci.
Penso che la stanza sia solo un luogo comune per indicare l’essenza dell’essenziale: il poco, poiché si può essere felici con poco.
La felicità è composta da piccole cose e come tale ha vita breve ma, che si ripete e tante sono le volte che si presenta a noi, che non ci facciamo più caso e passa inosservata; un po’ come chi preso dallo stress, dalla vita frenetica, non approfitta del suo tempo neanche per fermarsi a guardare ciò che lo circonda… magari il sorriso di un bambino, gli occhi dolci di un cane che ti guarda in cerca di una carezza, due anziani che si tengono per mano come fossero due giovani innamorati. Fermarsi per guardare un tramonto, anche se ciò avviene ogni giorno è comunque uno spettacolo irripetibile che sprigiona bellezza ed emozione. Il fatto sta che tutto, a volte, sia così scontato che il grande patrimonio che ci è stato affidato è sottovalutato, diventando così, qualcosa di normale routine, eppure dovrebbe suscitare in noi felicità, se non altro, bisognerebbe essere felici di svegliarsi ancora per un giorno da vivere e rivedere ancora un’altra alba.
Per cui la stanza di Pascal, a mio modestissimo parere, potrebbe essere un eufemismo per l'infelicità e   una metafora per raffigurare la felicità, qual è, nella sua ricchezza di semplicità.