mercoledì 6 febbraio 2019

" il regalo che vorrei ... " (testo di Anna Giordano - voce di Gianni Viterbo)



https://youtu.be/H6uZkzAarj4


Il regalo che vorrei …

Se vuoi regalarmi qualcosa che mi renda felice,
regalami una rosa o un fiore qualsiasi,
soltanto col pensiero, senza strapparlo alla vita.

Regalami un sorriso che m’illumini più del sole,
così saprò che in te c’è  gioia.
Regalami la noia, le inventerò un gioco,
la inviterò a rincorrermi perché mi prenda,
tanto, so già che non ci riuscirà.

Regalami la tristezza e ne farò una nicchia,
in cui nasconderò tutte le lacrime,
 per non oscurare chi accanto a me gioisce .
Donami  una carezza , sarà la mia coperta
in cui mi  avvolgerò quando sarò sola .

Regalami un airone ed un pezzo di cielo,
dove potrà volare senza che gli si spari .
Offrimi l’alba coi suoi colori, sarà la sorpresa
e ragione d’essere per i miei occhi .

Donami  un’ape, che vola di fiore in fiore,
saggia, m’insegnerà ad amare il lavoro.
Regalami una pietra, sarà la mia cattedrale,
quando la terrò in mano per pregare.

Sarà la pietra che non sarà mai scagliata.

Regalami un cestino di frutti dolci e gustosi,
da fare assaggiare a chi ha il gusto amaro della vita,
in bocca.
Regalami un pugno di sabbia ,
che terrò stretto, stretto,
lasciandone sfuggire un granello per volta,
prezioso, come gli anni da vivere ancora.

Donami tanta miseria,
perché possa a mia volta offrirla a chi non sa che esiste
e non resti indifferente a chi soffre.

Regalami una striscia di mare in cui potrò bagnare il mio
sguardo e navigare oltre l’orizzonte restando a riva,
oppure un po’ di deserto per sentirmi quiete nella quiete.

Regalami quel che vorrai, proverò a trarne sempre quello
che cerco, una ragione di vita per dare un senso alla mia.
Regalami il niente e penserò a chi, dal nulla, fece che
fossimo qui, oggi, ancora a parlarne.
                                                                                         11/01/2008   Anna Giordano

  

martedì 22 gennaio 2019

I FIORI DI AUSCHWITZ


Questo racconto è tratto dal libro dell’omonimo concorso: “Scrivi con lo scrittore” indetto dalla casa editrice Giraldi Editore di Bologna  per il quale, alcuni scrittori fornirono degli incipit e di cui
scelsi questo riportato all’inizio del racconto in corsivo. Incipit di Stefano Chiesa Mazzanti.

Dedicato ai martiri della Shoah.
Affinché non si dimentichino le persone che sono morte innocenti per  un reato inesistente.


                                       I fiori di Auschwitz

Incipit:
Quando riaprii gli occhi, mi ritrovai dinanzi ad uno spettacolo unico. Un immenso prato verde si disperdeva all'orizzonte, strani esseri, mai visti in vita mia, mi fissavano incuriositi.

Ero là, i miei occhi avevano dimenticato com'era fatta una distesa verde come quella che riempiva il mio sguardo e poi c’erano loro. Stavano in piedi, mi guardavano come se io fossi stata una cavia da laboratorio. Avevano tutte le sembianze dell’essere umano, ma qualcosa che  non riuscivo a decifrare nel loro sguardo, m'immergeva nel dubbio totale.
Ero in uno stato d’apparente quiete, ma la confusione mi fuorviava, non riuscivo a ricordare perché ero lì, stesa sull'erba.
C’erano dei fiori gialli che sembravano tanti piccoli soli caduti in quel prato, avevo l’impressione di sognare, quei fiori mi erano sconosciuti, ma così belli!
Pensai che mi trovassi in paradiso o in un altro luogo che non riuscivo ad immaginare. La mia vista era offuscata, mi sentivo come stordita.
Nel muovermi mi accorsi che un dolore fortissimo s’impadronì di me, facendomi riprendere coscienza. Quegli esseri strani che due minuti prima non avevo riconosciuto erano dei soldati tedeschi, le SS.
Dei flash di memoria mi accompagnavano mentre loro continuavano a guardarmi e a ridere lasciandosi sfuggire commenti odiosi, come: “ Volevi fuggire piccolo escremento della razza umana, ma devi soffrire prima di morire; con la tua pelle faremo fogli di pergamena, con le tue ossa bottoni”.  Il loro sorriso era pieno di cattiveria mista a sadismo.
E mentre continuavano a girarmi intorno, presi coscienza di tutto, di dove mi trovavo, di come tutto fosse iniziato.
Ricordai improvvisamente le mie origini rom, l’arresto di mio padre in Austria avvenuto verso la fine del 1940…

Bussarono alla porta della nostra umile dimora, stavo dormendo, le grida risuonarono nel silenzio della notte come la paura che invase il mio cuore che batteva forte, lo pressavo con la mano destra perché facesse silenzio, quasi a soffocarlo. Udii colpire col calcio del mitra, mio padre, era la Gestapo. Si dibatteva contro di loro, ma inutilmente. Fu preso di forza, stordito dai calci, fu scaraventato in una delle loro camionette grigioverde, in cui anche altri rom furono deportati per una destinazione incognita.
Avevo tredici anni, quando rimasi sola con mia madre e i miei sei fratelli e sorelle, ma fu per breve tempo. Dopo dieci giorni vennero a prendere anche noi, gli stessi uomini, tutti uguali se non per il loro aspetto fisico, quanto per il loro sguardo gelido e senza espressione e il tono della loro voce che li accomunava nell’impartire ordini perentori, che ancora ora risuonano nella mia mente: “SCHNELL, eins, zwei, drei, vier, fünf” …e così ad uno ad uno ci contavano mentre salivamo di forza sul camion; buttati come sacchi di spazzatura, gli uni sugli altri, senza distinzione, donne, bambini, vecchi, tutti sul camion, si soffocava. Ci trattavano come bestie da macello, non sapevamo dove eravamo diretti e neppure il perché di un tale viaggio. Dopo una notte passata nella paura, ci fecero salire su un treno merci e, rinchiusi, stipati, senza aria, giungemmo stremati dopo due giorni in un posto che non si può e non si deve dimenticare: “Auschwitz”.

Al di là dalla barriera di filo spinato ad alta tensione, uomini prigionieri sorvegliati a vista ci guardavano con occhi disperati, frustati, obbligati a correre scalzi su vetri sbriciolati. Dopo due giorni non tardai a conoscere la loro stessa sorte. I soldati ci spinsero giù dal treno su cui ci avevano obbligato a salire, i vecchi e i bambini dovevano saltare anche se no ne avevano le forze. Cadendo, le loro ginocchia si fracassavano sulle pietre vive e appuntite della strada ferrata, causandogli un atroce supplizio.
Un’infinità di strutture tutte uguali s’innalzavano alle spalle di quegli uomini che stavano dietro il filo spinato; le guardie con i mitra pronti a colpire vigilavano dalle torrette. I miei occhi faticavano a sostenere gli sguardi di quei prigionieri, quando una voce a me cara s’alzò dalla massa umana… era mio padre, gridò il nome di mia madre: “Zara!”.
Mi voltai e cercai di scorgere il suo viso, ma non ebbi il tempo di gridare il suo nome, che insieme a mia madre e mia sorella, lo vedemmo cadere sotto il fuoco dei mitra. Abbracciai mia madre, mentre un soldato ci divise strattonandoci e spingendoci dentro il capannone insieme con gli altri.
Giunte al blocco 26, una SS intimò a tutti di spogliarsi, vidi mia madre arrossire, mentre le lacrime uscivano da sole dagli occhi scuri e profondi, la guardai e mi vergognai.
Ci avevano divise e davanti a noi tante persone avanzavano per due, chissà cosa dovevamo sopportare? Poi me ne resi conto. Alle donne come ai bambini e agli anziani, gli rasavano la testa come pecore indifese.
Sentii gridare l’odioso : “SCHNELL”! Era il mio turno, non volevo che mi tagliassero i capelli, ma subito sentii scivolare il rasoio sul cranio, l’abilità con la quale privavano le teste delle chiome, mi fece capire che avevano molta esperienza.
In pochi minuti ero nuda dalla testa ai piedi. Toccai con la mano la sommità del cranio, avevo perso con i miei capelli non solo la libertà ma la dignità umana. Guardai da lontano mia madre e il dolore misto a vergogna era l’unico vestito di cui si copriva e mi coprivo.
Fui spinta ad entrare insieme con gli altri nei così detti bagni, tra botte e grida di chi si ribellava, quando l’acqua troppo calda o troppo fredda cadeva addosso.
Fui spinta ancora una volta con il calcio del mitra, che sentii entrare nella schiena affinché avanzassi.
Uscii all’aperto in pieno dicembre, mi misi in fila dietro gli altri durante l'attesa per avere un’uniforme a righe, che ricevetti appena giunto il mio turno. Vi entravo due volte, sporca e lacera, l’indossai in silenzio guadando mia sorella Sonia, di appena dieci anni, che a sua volta mi guardò e si mise a piangere. Aveva freddo, era ancora nuda nell'attesa di un’uniforme, ma dall’altro lato mia madre ci fece cenno con  gli occhi affinché non la guardassimo e ci fece capire di restare tranquille. Lessi nel suo sguardo la preoccupazione, forse era meglio ignorarci per non farci dividere del tutto.
Feci cenno a mia sorella di non piangere, mi sentivo invecchiata in poche ore di almeno dieci anni. La paura mi attanagliava lo stomaco e il cuore batteva fortissimo ogni volta che le SS impartivano un ordine.
Mi resi subito conto d’essere giunta all’inferno, quando vidi mio padre morire senza una vera ragione. L’essere stata divisa da mia madre, aver subito l’umiliazione di spogliarmi davanti a tutti ferendo la mia dignità, continuando a dover fare una lunga ed estenuante fila al freddo e con lo stomaco che gridava fame, e tutto ciò per tatuarci un numero sul braccio.
Nell’attesa del mio turno capii quanto contava poco appartenere alla razza umana, per quegli uomini che ci trattavano come bestie; fui marchiata con un numero che definiva la mia identità al posto del mio nome. Da quel momento ero soltanto un numero fra tanti altri.
Ci portarono in un campo, lo stesso in cui era stato ucciso mio padre.

Trascorsero circa otto settimane dal nostro arrivo, era il posto in cui tutti dovevano dimostrare la loro tenacia, era il campo designato per la quarantena, un vero tormento senza sosta. Era un campo in cui fui sottoposta a sevizie corporali e mentali. Ci passavano pochissimo cibo e dovevamo sostenere tanti sforzi fisici sotto le incessanti botte delle SS che avevano il compito di ridurre l’essere umano in larva, sia dal punto di vista fisico che mentale, con il solo scopo di vedere se eravamo idonei per sostenere il lavoro che ci spettava.
Il loro motto forgiato sul cancello dell’entrata di Auschwitz, per l’appunto si riferiva al lavoro: “Arbeit macht frei” “Il lavoro rende liberi”, una beffa ai danni dell’umanità, come per dire lavorando sarete liberati da questo inferno con la morte.

Uscii dalla quarantena stremata, la sola cosa piacevole fu il viso di mia madre che intravidi con quello di mia sorella. Fu un grande sollievo vedere che anche loro erano sopravvissute alla quarantena.
Iniziai a lavorare da subito. Il lavoro consisteva nel dovere spogliare i morti dei loro beni.
Entrando in quel luogo mi si raggelò il sangue nelle vene. Le mura erano altissime tre, forse quattro metri, per la metà l’enorme capannone era pieno di corpi ammucchiati che formavano cumuli alti due metri; cadaveri mutilati, già nudi, ad alcuni mancavano i capezzoli dei seni, altri corpi squarciati, privi d'organi, privi dei loro denti, mutilazioni fatte su corpi scheletrici, l’orrore era nei miei occhi.
Una donna che poteva essere mia madre, per la sua età e per lo stesso aspetto forte, mi prese la mano e mi fece girare la testa per non guardare tanta disumana crudeltà.
Quelle montagne di corpi inermi e mutilati devastarono la mia mente, c’era da impazzire e
terrorizzata, mi domandavo perché? Che cosa avevamo fatto per meritare un tale castigo?
Presto mi resi conto che non era altro che l’inizio della nostra fine.


 Seminuda ero distesa su quel prato e ormai mi era chiara la ragione del dolore che sentivo. Era un dolore dovuto alle percosse ricevute dopo la mia tentata fuga dal campo di Auschwitz, dove avevo approfittato della distrazione di una guardia e mi ero infilata in una cassa di legno piena di vestiti che dovevano essere portati via dai soldati. La cassa fu caricata sul camion e quando il cancello si aprì sentii una stretta al cuore ed una gioia che mi pervase.
Ero riuscita ad uscire dal campo, dovevo tirarmi fuori da quella cassa, ma non sapevo come fare poiché c’erano i soldati. Colsi un momento propizio per uscire dalla cassa, quando il camion si fermò bruscamente; profittai del fatto che i soldati erano scesi dal camion. La ruota anteriore destra si era forata, saltai dal camion rotolando giù per la scarpata, ma un soldato mi vide e subito chiamò gli altri…
Erano gli stessi che mi guardavano in quel momento, dopo avermi massacrata di botte ridevano malignamente. Avrebbero fatto meglio se mi avessero uccisa.
Erano troppe le cose di cui mi ricordavo e che mi facevano male più delle ferite: mia madre che rubava le cinture, qualche scarpa di cuoio ai corpi seviziati da esperimenti disumani di dottori sadici.
Il cuoio racimolato da mia madre che masticava per ammorbidirlo, lo riduceva poi in briciole e di nascosto ci diceva di mangiarlo se non volevamo morire di fame, così pure, trafugava pezzetti di stoffa in cotone riducendoli in fili che spezzettava, era il nostro pasto, l’inghiottivamo sotto il suo sguardo vigile ed amorevole se pur lontano”.
"Quanti orrori l’essere umano ha commesso, che di umano aveva solo le parvenze", come quelle bestie che stavano a me intorno.
Uno di loro mi disse d’alzarmi. Sentivo che non ce la facevo, ma ci provai, il dolore era insopportabile e crollai di nuovo sull’erba quei fiori mi guardavano, erano l’unica cosa bella che mi era capitata di vedere, da quando ero entrata nel campo…

Un calcio mi giunse forte colpendomi all’anca già dolorante, cercai di rialzarmi riunendo tutte le mie forze ormai inesistenti. Pensai a mio padre, mia madre, al loro coraggio, e con un urlo atroce mi tirai su barcollando, uno di loro gridò ancora una volta: “SCHNELL!” Sempre lo stesso ordine. Con piccoli passi traboccanti da una zolla all’altra fui spinta sul loro camion e portata a Birkenau. Mi divisero da mia madre e mia sorella; gli altri fratelli, erano stati sin dall’inizio deportati in altri campi di concentramento e di loro non avevamo saputo più nulla. Quando arrivai al campo fui scaraventata giù dal camion con i miei vestiti in brandelli e le ferite ed ecchimosi su tutto il corpo; due prigionieri vennero a raccogliermi, ero a pezzi. Cercarono di disinfettare le mie ferite con la mia stessa urina, passai più giorni abbandonata a me stessa su di uno straccio di coperta, tra la vita e la morte a causa delle infezioni, al freddo delle notti, nutrita da qualche tozzo di pane che Sara, una donna ebrea, divideva con me quel poco che riceveva in cambio del lavoro da lei svolto nel campo di Auschwitz che distava tre chilometri da Birkenau, dove si trovavano mia madre e mia sorella.

Sara, mi raccontò che erano stati buoni con me perché i prigionieri che tentavano l’evasione, erano puniti con la morte, forse era stata la mia età che li aveva frenati, ero giovane e dovevo lavorare. Ogni sera dopo la ronda Sara strisciava a terra per raggiungere il mio giaciglio e mi portava notizie di mia madre e mia sorella. Una mattina doveva andare a lavorare, ma due guardie vennero e la prelevarono, da allora non ebbi più sue notizie, seppi solo che dopo pochi giorni dovetti sostituirla.
Il dispiacere di non vederla più però fu rimpiazzato dal piacere di rivedere mia madre e mia sorella.
Il lavoro che mi fu affidato fu quello di curare le aiuole che il Führer aveva ordinato, ai suoi uomini, d’intrattenere. Egli era amante della natura, incredibile, gli piaceva ammirare i fiori e le piante nei loro colori e forme. Ogni giorno annaffiavo e curavo quelle aiuole, vicino ai campi di sterminio, da un lato c’erano i fiori e dall’altro la porta che conduceva alle docce della morte. Tutto doveva sembrare bello…le guardie ogni mattina venivano a vedere se tutto fosse in ordine, se avevo zappato e ripulito il terreno dalle cattive erbe, ma su tutto se avevo annaffiato bene le piante tenere. Una giovane betulla sovrastava con i suoi rami il giardino era quella preferita dal Führer .
Da parte dei soldati, c’era come una morbosa attenzione per quelle piante, di cui non conoscevo il nome, c’erano anche i fiori che mi avevano vista giacere nel campo, quando ero stata catturata dopo la fuga.
 Sì, proprio loro, i piccoli soli gialli che avevo così battezzato perché avevano la corolla come le margherite e che somigliavano tanto al sole in un cielo verde e che mi avevano regalato un senso di libertà anche se solo per un breve istante.
Che strano! Pensai che comunque, gli fosse stato riservato quello spazio esiguo e come dei prigionieri privilegiati del Führer, anch’essi, fossero stati privati della loro libertà.
Mi guardavano, ma non più con la stessa bellezza di quando ancora liberi stavano come me nel campo immenso color speranza, non avevano lo stesso colore oro di cui si fregiavano e fieri mostravano i loro petali come piccoli raggi di sole, forse era solo una mia impressione, ma percepivo la loro tristezza che era anche la mia.
Stavo ripulendo il terreno dalle erbacce e la mia mente dai pensieri cattivi, quando udii gridare mia madre, due soldati l’avevano presa per deportarla in un altro campo di concentramento, “Treblinka” di cui nessuno conosceva la vera funzione di quel campo. Lasciai gli attrezzi e corsi lei incontro, mi aggrappai alla sua gonna lacera, i due soldati mi presero e mi staccarono da lei con violenza facendomi cadere sulla ghiaia ai bordi del reticolato di filo spinato ad alta tensione, restai lì per terra, tramortita dal colpo ricevuto e vidi allontanarsi per sempre mia madre insieme alle sue grida. Alzai pian piano lo sguardo e dalle aiuole a me vicino facevano capolino i fiori, forse era destino, ma stavano guardandomi ancora una volta, come per dirmi: “Coraggio, rialzati e vieni a curarci, tu sola puoi capirci”. Mi alzai piangendo e ripresi il lavoro poiché lo sguardo della sentinella già pesava su di me ed era pronto per lanciarmi il suo: “SCHNELL!” Le lacrime cadevano come fiumi, bagnai i fiori del mio pianto, dovevo stare attenta che non morissero ne valeva della mia vita, se vita poteva chiamarsi.
Il sole era da poco tramontato e la sera triste avanzava, e le mie mani sudice di terra aggiustavano le ultime zolle intorno ai fiori da poco nati, purtroppo avevo le mani stanche e per sbaglio spezzai il gambo di uno di quei fiori e per non farlo vedere lo raccolsi e lo nascosi nella tasca del grembiule. Il gesto fu notato da una guardia che mi ordinò di mostrare cosa avevo messo in tasca. Purtroppo dovetti estrarre il fiore dalla tasca che, poverino, s’era già afflosciato. Per il mio gesto, dovetti pagare.
Quella notte la passai in un buco scavato nella terra sovrastato da una grata di ferro pesante. Portai con me il fiore che avevo spezzato e ricordo che la sola cosa che feci, fu quella di stringerlo sul mio cuore, come una coperta per tenermi caldo in quella notte fredda e scura. Il mio piccolo sole, un fiore di cui ignoravo il nome, ma che occupò un posto nella mia vita regalandomi un po’ di colore in un mondo fatto d’oscurità e violenza. Un mondo in cui gli esseri umani erano solo numeri ed i fiori creature da rispettare.  

Autrice: Anna Giordano 
edito Giraldi Editore  luglio 2009

venerdì 18 gennaio 2019

Chissà perché il cuore non si ammala di cancro?

Chissà perché nel cuore non si genera il cancro. 
È l'unico organo del quale non ho mai sentito 
che fosse stato affetto da tumore;
forse non è così, può darsi, seppure ho cercato 
e casi non ne ho trovati. 
Vorrei capirne le ragioni poiché, pur essendo un organo vitale, 
come il cervello, il pancreas, il fegato, i polmoni, ecc... 
non ho mai sentito che qualcuno si fosse ammalato di cancro al cuore. 
È vero, si ammala di altre malattie, 
ma perché non di quella più temuta e distruttiva? 
Sarà forse perché è una pompa ed è sempre in movimento? 
Ma anche il cervello e tutti gli altri organi lo sono! 
Allora perché il cuore non si ammala di cancro? 
Forse sarà perché il suo tessuto è muscoloso? 
Mah! 
Eppure deve esserci un perché.
Forse perché è il solo a raccogliere emozioni,
 è il solo che si commuove quando gli altri si ammalano di cancro 
e se pure lui si ammalasse dello stesso male, 
non potrebbe aiutare chi si ammala e avere la forza di poter guarire 
ed esternare l'amore per la vita. 
Forse ho trovato! L'amore si sa non muore mai e il cuore è il solo 
che ospita l'amore, e può sconfiggere il male ed impedire al cancro 
di entrare nel suo regno? 
Chissà se è questa la ragione, ma voglio accontentarmi di essa, 
perché in fondo, può far nascere,  se non altro, il dubbio a chi nell'amore non crede.

Anna Giordano

sabato 8 dicembre 2018

Un racconto per Natale

LUIGINO E L’ABETE


l’aria quella mattina era più fredda del solito. Il Natale non era lontano, e i bambini che stavano per accingersi ad andare a scuola guardavano il cielo cinereo, come per scorgere se qualche fiocco di neve se ne staccasse e venisse giù.

Luigino era un bambino, forse il solo, a non volere la neve, e lasciando indietro i suoi compagni di scuola, sì incamminò per la scorciatoia che tagliava per il bosco per giungere a scuola in tempo, prima che la neve iniziasse a cadere. Gli alberi del bosco sembravano incantati da chissà quale sortilegio; quelli con i rami spogli, apparivano ancora più scheletrici e il gelo li rivestiva di un leggero strato di ghiaccio. Guardavano Luigino dall'alto, come se volessero chiedergli aiuto per farsi liberare da quei cristalli bianchi che irrigidivano i loro rami. Luigino si fermò un attimo a guardarli, sentiva quel richiamo e li capiva anche, poi si guardò le scarpe rattoppate male, avevano trasformato i sui piedi, un po’come i rami gelati di quegli alberi. Avrebbe voluto fare qualcosa per loro, ma non sapendo cosa, passò vicino i tronchi e li accarezzò, come per consolarli. Continuando il suo cammino, con i piedi intirizziti dal freddo, guardò un abete che alto si teneva sul lato destro del sentiero, i rami erano forniti di foglie verdi che lo riparavano meglio dalle intemperie, e il suo scheletro non gli sembrava tanto che patisse il freddo.
Egli si soffermò a guardarlo. Ebbe un’impressione differente dalla prima. L’abete, sembrava che fosse tutto contento di avere sui suoi rami il gelo. Erano rivestiti di tantissime foglioline aghiformi. Agli occhi di Luigino, appariva come un signore che vestiva un cappotto di pelliccia, un po’come i suoi compagni di scuola, loro, avevano le scarpe imbottite di pelliccia, i cappotti o i piumini che li coprivano e poteva anche cadere la neve, si sarebbero rotolati dentro e giocato senza soffrire il freddo.
Mentre Luigino pensava a tutto ciò, sentì sul suo capo una goccia d’acqua gelida penetrare tra i suoi riccioli scuri, fino a giungere sul cuoio capelluto facendolo rabbrividire. Passò la mano sul capo per stemperare la goccia d’acqua, quando la ritirò, si accorse che nel palmo aveva una moneta d’oro. Luigino non credeva ai suoi occhi, non aveva mai visto tanto splendore.
Si domandò da dove fosse caduta, ebbe quasi paura, si guardò intorno cercando di trovare una risposta, ma non c’era nessuno a parte l’abete che lo guardava dall'alto del suo tronco. 
Alzò il capo e stava per abbassare gli occhi, quando scorse fra i rami un folletto, che teneva in mano una pentola con l’ansa tutta in oro. 
Luigino lo guardò strofinandosi gli occhi, non poteva essere vero, non credeva ai folletti, ma vederne uno che lo fissava con un grande sorriso stampato sul viso, lo convinse, non senza reticenza. 
Dovette sforzarsi per far uscire un suono dalla sua bocca, un suono di stupore che a malapena  riuscì ad articolare. 
Il folletto scese qualche ramo più giù e fissandolo domandò lui se fosse contento della moneta d’oro, Luigino rispose in modo affermativo oscillando il capo avanti e indietro, perché non riusciva ancora a parlare. Il folletto, allora facendo una smorfia disse di volere udire la sua voce. Il poverino, si sforzò talmente, che riuscì appena ad articolare un sì, tanto silenzioso che la cosa fece stizzire il folletto, diventò tutto rosso e gridò con una voce smisurata in rapporto alla sua statura, che voleva sentire la sua voce. Luigino un po’ per la paura un po’ per non contrariarlo, prese tutte le sue forze e rispose con un grido pronunciando un si, prolungato. Il folletto contento gli lanciò una seconda moneta che arrivò dritta nella tasca della sua misera giacca, ma essendo bucata la moneta scivolò a terra ruzzolando, emettendo un suono tintinnante.
Luigino corse dietro la moneta per raccattarla, ma la moneta s’infilò in una fessura delle radici del grande abete che poco prima sovrastava Luigino. Le sue dita gelate s’infilarono nella fessura dell’abete, il folletto ridacchiava su uno dei rami, quando, una voce cavernosa fece sussultare Luigino:
         - Chi osa svegliare il mio riposo! Luigino alzando gli occhi vide l’abete che aveva una bocca, si strofinò gli occhi pensando di sognare. Non aveva mai visto parlare un albero. Impaurito, fece uscire dalla sua bocca un debole: 
         - Mi scuso signore abete, ma lei imprigiona tra le sue radici una moneta che è mia.
         -  Tua? Ma se tu non possiedi nulla come vuoi possedere una moneta d’oro?
-          Sì, lo so signore abete, io sono povero, ma la moneta mi è caduta dalla tasca è il signor folletto che sta su i suoi rami che me l’ha regalata, soltanto, la mia tasca è bucata ed è scivolata via.
-          Il folletto è un mio inquilino, abita da anni nel mio tronco e non mi ha mai pagato l’affitto, e questa moneta d’oro sarà un piccolo anticipo al suo debito.
-          Ma signor abete lei non ne ha bisogno, lei è un albero bello forte, sopporta il freddo e non ha bisogno certo di scarpe e né di mangiare; a casa ho sette fratelli e sorelle e questa moneta farebbe comodo ai miei genitori che non sanno come sfamarci.
-          Non piagnucolare, piccolo insolente straccione, come osi dire quel che io devo fare, io sono un abete, ma ogni tanto anche io ho bisogno di qualche moneta d’oro.
-          Ma per farci cosa?
-          Questo non ti riguarda, bamboccio!
-          Ma un albero non ha bisogno di monete d’oro.
-          Eppure ti ripeto che sì, non aggiungo altro ora puoi anche andare, la moneta resta mia e la terrò stretta fra le mie radici, guai a chi si azzarda a volermela sottrarre, avrà le dita della mano stroncate dalle mie radici, se solo oserà provarci.
Luigino intimorito dall'abete indietreggiò e dispiaciuto, lanciò un lieve saluto, accompagnato da un sorriso appena percettibile, rivolto al folletto che stava sul ramo divertito per l’accaduto. 
Egli sobbalzò giù dal ramo, con la sua pentola scintillante e piena di monete davanti ai piedi di Luigino, il quale stava incamminandosi sul sentiero per raggiungere la scuola. Il folletto sghignazzando lanciò un alt al ragazzo che subito si bloccò. Guardò negli occhi il piccolo omino che gli sbarrava la strada e si domandò cosa volesse ancora da lui… il folletto saltò sulla pentola raccolse ancora una moneta alzò la mano che la serrava e disse a Luigino:
-          Se tu sarai capace di prenderla al volo, questa moneta sarà tua.
Così dicendo la lanciò in alto, ma la moneta fu afferrata da uno dei rami dell’abete, prima ancora che cadesse a terra, così, Luigino si vide sottrarre dall'albero, la seconda moneta che gli era destinata. 
Le sue proteste furono vane, l’abete non volle ridargli la moneta e se la tenne per sé. Sconsolato il povero ragazzo riprese il suo cammino, ma il folletto lo seguiva saltando da un punto all'altro del sentiero, fin quando, saltando cadde e con lui la pentola piena di monete, che si dispersero lungo la strada, ruzzolarono tutte verso l’abete che scrollò le sue radici per imprigionarle tutte. 
Luigino e il folletto corsero lungo il sentiero per tentare di raccattarne qualcuna, ma fu inutile, l’ingordo abete aveva imprigionato tutte le monete con le sue radici. 
Nel vedere i due ai suoi piedi che, inginocchiati, cercavano le monete, lo fece ridere, i suoi rami furono scossi dalla sua risata portentosa e alcuni ghiaccioli si staccarono e uno inchiodò il piccolo folletto a terra trapassando la coda della sua bella livrea rossa impedendogli di muoversi. Luigino vide il piccolo folletto in difficoltà si precipitò per liberarlo, estrasse dalla terra il pugnale di ghiaccio e lo gettò lontano, poi aiutò il folletto a rimettersi in piedi, il quale lo ringraziò e saltò sull'albero dicendo all'abete che le monete erano le sue, ma l’albero grondò dicendo che anche il tronco era suo e che lui ci abitava con tutta la sua famiglia e non gli aveva mai fatto dono di nulla. 
Luigino ascoltava il battibecco fra i due e si ricordò che doveva andare a scuola, la neve iniziava a cadere ed il freddo gli bloccava i movimenti dei piedi. Così, salutò il piccolo folletto che ringraziò per la moneta che gli aveva regalato, il folletto gli sorrise e disse che se l’era meritata. L’abete ascoltò la conversazione e per dispetto, quando Luigino passò su una delle sue radici, gli fece lo sgambetto facendolo cadere, e nel mentre,  aprì la mano che serrava la moneta d’oro e questa rotolò anch'essa fra le radici avide dell’albero. 
Luigino cercò di riprendersela mentre il folletto con tutta la sua rabbia pestò il ramo su cui poggiava i suoi piccoli piedi, in segno di ribellione per la cattiveria dell’albero, ma l’abete  non fece altro che ridere della loro sventura. Luigino si rialzò e si allontanò di corsa…
Giunto davanti alla scuola col fiatone, entrò svelto in classe; la campanella era già suonata e quando prese posto nel suo banco, la maestra gli domandò la ragione del suo ritardo. Il povero Luigino non potendo raccontare quel che gli era accaduto, disse che si era smarrito nel bosco. La cosa fece ridere i suoi compagni e fu spunto di un’ennesima derisione. Finita la lezione, Luigino riprese la strada per andare a casa e pensò di passare ancora per il bosco, se non altro, per vedere se le monete d’oro erano ancora ai piedi dell’albero e anche per rendersi conto se tutto non fosse stato solo frutto della sua immaginazione . 
Camminava Luigino fin quando non giunse al bosco, dove si addentrò con cautela, quasi come se fosse un ladro che temesse di farsi scorgere, infatti, dopo pochi passi intravide l’abete che imponente occupava una vasta area del bosco; Luigino avanzava intimorito sulla strada che costeggiava le sue radici, l’albero appena lo vide scosse alcuni rami come se fosse nervoso ed aspettò che lui passasse.
Del folletto però, neppure l’ombra. Luigino continuò sulla strada e passando accanto alle radici gettò un occhiata per vedere se le monete fossero ancora prigioniere di esse, purtroppo l’abete le teneva strette, allora, senza fermarsi continuò la sua strada, ma giunto all'altezza del tronco dell’albero si sentì chiamare: “ Ehi, tu! Se pensi d’impossessarti di queste monete, ti sbagli,” brontolò l’abete. 

Luigino si mise a correre impaurito. Giunto a casa non sapeva se raccontare tutto al padre, lui era molto severo e se non l’avesse creduto, avrebbe rischiato di guadagnarsi anche un castigo, così, decise di raccontare la sua avventura alla madre, che di carattere dolce e remissivo, gli avrebbe dato sicuramente ascolto.
La mamma dopo avere ascoltato attentamente il racconto del figlio disse che magari raccontando tutto al padre avrebbero trovato insieme una soluzione al problema. 
Luigino, anche se non del tutto d’accordo, alla fine accettò e corse insieme alla mamma nel capannone dove il papà tagliava i tronchi che abbatteva ogni giorno nel bosco. La madre raccontò tutto al padre e, quando finì,  lui la guardò perplesso, poi guardò suo figlio e aggiunse: “ Se tutto questa storia non è vera, giuro che resterai senza minestra per tre giorni e tre sere. Luigino disse: “ Ti prego papà credimi è vero”.
Il padre prese la sega poi la mano di suo figlio e domandò di condurlo al bosco dove l’abete dimorava. La sua intenzione era quella di tagliere l’albero e prendergli le monete che imprigionava con le sue radici. I due partirono in direzione del bosco, giunti in prossimità dell’albero, Luigino si fermò, indicando al padre l’abete. Il boscaiolo s’avvicinò, toccò il tronco e fiutando la direzione del vento, prese posizione per tagliare l’albero. Luigino che era rimasto nascosto fino allora, avanzò per aiutare il padre a segare l’abete, ma l’abete vedendolo reagì dicendo:
- Ah! Sei venuto accompagnato da tuo padre, piccolo moccioso!
Il boscaiolo non credeva alle sue orecchie, non aveva mai sentito un albero parlare e pensò di rispondere al posto del figlio che era rimasto muto, con la paura addosso che l’albero potesse far del male al suo papà. 

Il boscaiolo domandò all'abete perché fosse così cattivo e avido, l’abete rispose:
- Perché sono stati gli uomini a rendermi così con la loro cupidigia, uomini che mi hanno tolto più volte l’affetto dei miei figli nati ai miei piedi, e solo per far piacere ai piccoli mocciosi come tuo figlio, quando arriva il Natale. Così, sapendo che gli uomini sono attaccati al denaro ne serbo tanto da pagarli perché lascino i miei nuovi germogli crescere in pace. Il papà di Luigino ascoltò con attenzione le parole dell’abete e provò il dolore che l’Abete aveva sentito per i suoi alberelli, che i suoi amici boscaioli avevano tagliato. 
Si rese conto che anche lui aveva fatto la stessa cosa con altri alberi, purtroppo il suo lavoro era quello e non poteva cambiarlo; spiegò all'abete che lui non gli aveva mai tagliato i figli. L’abete rispose che i suoi amici l’avevano fatto. 
Il boscaiolo domandò cosa potesse fare per rimediare al male che aveva subito.  

L’abete rispose che doveva scrivere un pannello e inchiodarlo su uno dei suoi rami, proibendo di tagliare i piccoli abeti che stavano ai suoi piedi. Il boscaiolo acconsentì sperando che l’abete parlante gli desse le monete che tratteneva fra le sue radici, ma l’abete non volle dargli nulla dicendo che comunque gli servivano per gli altri boscaioli che non erano bravi come lui. Luigino indignato protestò dicendo al padre che era solo un vecchio abete buono per riscaldare la casa e i suoi fratelli e sorelle. L’albero  incollerito iniziò a scuotere i suoi rami e con una grossa voce disse:
- Ecco! Vedi? Avevo ragione io che non bisogna fidarsi di voi uomini! Siete tutti avidi.
Il boscaiolo lo interruppe e disse: - Ingordi noi non siamo, ero venuto qui per tagliarti caro abete ma la tua storia mi ha intenerito, anche io sono un padre e devo dare da mangiare ai miei figli e come te devo vegliare su di loro, ma come ben sai noi uomini non possiamo fare nulla senza il denaro, tu ricevi dalla terra il tuo nutrimento e non hai bisogno di riscaldarti in inverno, i miei bambini muoiono se non mangiano e non si riscaldano. Le monete che hai sotto le tue radici, bastano a sfamare tutte le famiglie dei boscaioli e se tu mi dai le monete,  le dividerò con loro così non avranno bisogno di tagliare gli alberi per vivere e ti prometto che sarai tu a vegliare per la spartizione  delle monete d’oro, faremo in modo che questo bosco non venga più toccato e che i tuoi germogli crescano per diventare abeti adulti come te. L’abete aveva ascoltato con attenzione  il boscaiolo e, se non avesse accettato si sarebbe trovato ridotto in tronchetti per il camino, così il buon senso lo fece riflettere e senza dare l’impressione di accondiscendere, storse la bocca e disse:
- Sia!
Il papà disse a Luigino di correre in paese a chiamare i suoi amici colleghi e di portarli al bosco senza spiegargli nulla. Luigino obbedì e corse in paese come gli aveva ordinato il padre. Intanto rimasto solo con l’abete, il papà iniziò a raccogliere le monete e le mise nella pentola che era rimasta, dopo la caduta del folletto, capovolta a terra. 
L’albero poco a poco lasciò tutte le monete che le sue radici serravano e chiese al boscaiolo di lasciargliene una per ricordo.
Il boscaiolo acconsentì e l’abete la nascose sotto la sua radice più grande. Luigino intanto era giunto insieme agli altri boscaioli, il padre seduto sulla pentola delle monete, iniziò a spiegare ai suoi amici tutta la storia e domandò alla fine chi fosse d’accordo di non abbattere più alberi in quel bosco. Tutti esposero le loro perplessità, ma alla fine, quando videro la prima moneta uscire dalla pentola, iniziarono ad accettare. 
I loro occhi scintillavano più delle stesse monete, la conta in parti uguali era iniziata sotto lo sguardo attento dell’abete che fino allora non aveva più parlato, quando tutti ebbero le loro monete, l’abete tossì. I boscaioli spaventati si fermarono e sbigottiti videro il tronco dell’albero aprire la bocca per dire loro di non dimenticare le promesse fatte. Anche se ancora spaventati dall'albero parlante, i boscaioli erano felici, quelle monete ricevute erano come manna dal cielo e non esitarono a rispondere che avrebbero mantenuto la promessa fatta.

 Luigino ed il papà promisero inoltre all'abete, che avrebbero vegliato a che nessuno rompesse il patto. Rientrarono a casa contenti.

Da quel momento ogni anno festeggiarono il Natale accontentandosi del presepe e così fecero anche gli altri boscaioli.
L’abete è ancora nel bosco ed ha visto crescere i suoi figli tutti intorno a lui… Il folletto, che aveva nel frattempo recuperato la pentola vuota, iniziò ad accumulare altre monete… divenne l’inquilino più amato dal bosco poiché, per gli alberi, era una garanzia alla loro incolumità.

Se passate un giorno nel bosco del signore abete, potrete leggere il cartello che il papà di Luigino scrisse e appuntò sul suo tronco:
NON  TRONCATE LA VITA AI GIOVANI GERMOGLI  DI QUESTO ABETE, SONO SUOI FIGLI…

“Ogni cosa è stata creata per le stesse ragioni che l’uomo è stato creato: “Vivere per dare la vita.”  
Il valore della vita è lo stesso anche per gli animali, le piante e le cose e, com’è giusto, deve essere rispettato; la ragione e la saggezza risiedono in ognuno di noi, basta solo farsi guidare dalla loro voce e dal cuore.”


Anna Giordano.                                                                

giovedì 6 dicembre 2018

Pensiero serale: L'amicizia



L'amicizia non si distrugge mai se solidamente rimane legata ai principi di cui è composta la sua essenza. 

L'amicizia è una pianta che affonda le sue radici nella sincerità, nella condivisione e partecipazione, nella presenza e nella presenza della sua assenza, nel saper dare conforto, nella mano tesa dopo una caduta e a quella tesa prima, per evitare la caduta.  
L'amicizia è una cosa seria, un vero impegno verso chi apre la porta di casa e ti offre il suo cuore. 
È un sentimento importante, che non va sciupato, non va monetizzato e neppure demonetizzato. 
Un'amicizia lascia sempre il posto all'imprevisto, per non mancare mai al bisogno degli altri. 
L'amicizia è quel sentimento che lega con un patto fraterno agli altri e fatto a se stesso, tacitamente. 
L'amicizia è quella intesa,cui basta uno sguardo per capirsi senza aggiungere altro. 
L'amicizia è una corteccia d'albero, che protegge il tronco dal gelo che può lederle, è una seconda vita, sempre presente e pronta al momento giusto, discreta e singolare, difficile da potere ignorare.


Anna Giordano


mercoledì 5 dicembre 2018

Buongiorno mondo Poesia e voce di Anna Giordano Regia di Domenico Ernandes






Il contadino brucia le erbacce nel suo campo.
Le formichine corrono frenetiche, 
s'incrociano,
son là sul davanzale,
intente a trasportare il cibo già da ore.

Il sole si stiracchia tra le lenzuola d'ovatta,
sospinte dalla brezza pasticciona,
scoprendo solo a tratti i caldi raggi che,
senza tregua,
tentano d'abbracciare il mondo.

Sbadigliano i boccioli,
attendono ad'aprirsi
per sciorinare al sole i petali del cuore.
Cinguettano sugli alberi, uccelli d'ogni sorta.
Il gatto sta a guardare in cerca di un errore,
e sembra che si chieda: perché lui non vola?
Il mare guarda il cielo e ne sposa i colori,
gli alberi con i rami cercano compagnia,
afferrano un po' di cielo ma è solo fantasia.

Ognuno pensa a sé ma vive anche per gli altri.
Eppure l'universo così meraviglioso,
da noi sovente è ignorato
e sembra che tutto ci sia dovuto;
troppe le volte che diamo per scontato:
un'alba oppure un tramonto,
e mai ci domandiamo se tanto meritiamo.

Viviamo grazie a ciò che ci è concesso:
l'aria che respiriamo,
l'acqua che beviamo,
il sole che ci riscalda,
la pioggia che ci bagna,
il vento che ci asciuga e ci abbraccia senza pretese,
le piante che ci nutrono…
Senza mai domandarci:
come faremmo a vivere se loro non ci fossero?

Cosciente esulto e ringrazio dicendo ogni mattina:

che bello risvegliarsi insieme alla natura,
che bello risvegliarsi nella città infernale,
che bello risvegliarsi e dirsi:
che fortuna!
Ancora un giorno mi bacia e vivo è il mio risveglio!

26/01/2015  Anna Giordano



Pensieri serali...N.13 la metafora- la musica- la fantasia- le verità



"La metafora è come un faro nella tempesta... illumina chi si è perso."

"La musica non ha frontiere , entra nell'anima senza bussare e parla la   lingua universale."

"La creatività e la fantasia sono il dono che Dio ha voluto donare     all'uomo affinché non impazzisse"

"Ci sono verità non dette, solo per fare bene, altre, dette solo per ferire 
  e quelle mai ammesse, per far soffrire". 

Anna Giordano